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Rapito dai terroristi e sopravvissuto alla Libia, la storia di Hassan. "Rinato ad Arezzo, ora sogno un lavoro come orafo"

Inizia oggi un viaggio che ci porterà a raccontare storie di migranti: giovani che hanno lasciato la propria terra e le proprie famiglie trovando poi un riscatto ad Arezzo.

Pericolo. Forse è questa una delle prime parole italiane che Hassan, 27enne somalo, ha imparato. E' quella che meglio spiega il suo sentirsi braccato, di Paese in Paese, nel cuore dell'Africa, dai militanti di Al Shebaab. E' quella che meglio racconta lo stato di ansia e di paura all'interno di un lager della Libia, dove ha vissuto 5 mesi tra violenze inaudite. Ed è quella che oggi vorrebbe lasciarsi alle spalle guardando avanti. "Perché finché ero in Libia pensavo di essere morto - racconta - ma solo dopo essere arrivato ad Arezzo ho capito di essere ancora vivo e di poter guardare avanti". Tanto avanti da imparare la lingua, fare corsi per muratore e mulettista e adesso intraprendere una nuova importante avventura, con un tirocinio retribuito in una azienda orafa del territorio. 

Hassan fa parte dello Sprar, il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati e vive nel centro di accoglienza di Castiglion Fibocchi gestito da Oxfam. La sua è una storia emblematica: "Che inizia male, malissimo, ma che da quando sono ad Arezzo sta cambiando completamente". 

La sua storia inizia circa tra anni fa con un rapimento. Cinque militanti di Al Shebaab (un gruppo terroristico jihadista) entrarono nella sua abitazione e lo portarono via. "Mi ritrovai in un campo di addestramento, volevano che mi unissi al loro gruppo. Io non ne volevo sapere, avevo la mia vita, lavoravo in una bottega, avevo una famiglia. Non volevo assolutamente diventare un terrorista, sparare o piazzare bombe. E allora iniziarono le torture". Ogni notte al calar del sole, Hassan e altri giovani rapiti come lui venivano picchiati e torturati. "E' andata avanti così un intero mese e se non fossi scappato sarei morto lì". Una sorte che conosceva bene, perché un suo giovane congiunto appena un anno prima era stato ucciso per il suo rifiuto e i familiari rividero solo il cadavere. 

Il rapimento

"Poi una sera io e altri cinque giovani abbiamo approfittato di un momento di confusione al cambio della guardia e siamo scappati". Le strade dei sei si sono subito divise e Hassan trovò rifugio nella casa di una famiglia che viveva in un villaggio poco distante. "A quel punto però non potevo tornare a casa  perché mi avrebbero ucciso o avrebbero ucciso i miei familiari". E allora via, in un disperato viaggio nel cuore dell'Africa, nei camion dei trafficanti di uomini, verso una nuova vita in Europa.

Il viaggio

"La prima tappa fu Addis Abeba, in Etiopia. Poi il Sudan, a Cartum, e poi verso la Libia attraversando il Sahaara. Dopo circa un mese arrivammo in Libia. Era quasi estate e finìì subito in carcere. Finii all'inferno". Dai camion, decine e decine di persone furono letteralmente scaricate nelle "carceri". "Vivevamo in 200 stipati in una sola grande stanza. Uomini, donne e bambini. Dormivamo stesi sul fianco uno accanto all'altro, perché non c'era spazio. Per uscire servivano soldi, tanti soldi, e in pochi potevano trovarli. Ogni giorno ci torturavano. Ogni notte stupravano le donne". Per essere libero ad Hassan furono chiesti 3500 euro, ma la sua famiglia non ne possedeva. "Ero sicuro che sarei morto lì: di solito le famiglie cercano soldi, si fanno aiutare, ma io non avevo un telefono per chiamarli e anche loro non avevano telefoni. Insomma non potevo contattarli". Poi nel lager arrivò un giovane del suo stesso villaggio. "Aveva un telefono e avvertì la sorella negli Stati Uniti". Così un tam tam tra migranti somani nel mondo e la raccolta fondi per salvarlo. 
"Ma non era finita lì: quando arrivarono i soldi i carcerieri mi mandarono in spiaggia con altri tre giovani. Ci diedero pezzi usati da assemblare e ci dissero di costruire un gommone. Nessuno di noi ne era capace. Il motore pesava 25 chili, io ero debolissimo e non riuscivo nemmeno ad aiutare ad alzarlo. I carcerieri mi picchiarono ancora. Pensai di aver perso tutti i denti". 

Dal lager all'Odissea in mare

Quell'imbarcazione, un gommone, fu assemblata: "Ci caricarono 110 persone e ci fecero partire da soli. Era la notte del 26 novembre 2016. A mezzogiorno del 27 novembre la barca si fermò. Pensai che non avremmo avuto scampo". Poi una nave li raggiunse: "A bordo c'erano persone in divisa, ma non so se erano italiani. So solo che ci portarono fino a Catania. Io lì fui curato, avevo profonde ferite ovunque, e avevo perso tantissimo peso".

Il riscatto ad Arezzo

Poi l'arrivo ad Arezzo e la nuova vita: "Solo ad Arezzo ho capito di essere ancora vivo, di poter guardare avanti. Ho studiato l'italiano, mi hanno permesso di seguire corsi per muratore e mulettista e poi la grande occasione". Un'importante azienda orafa aretina stava cercando tirocinanti, ma non riusciva a trovarli. Per questo si rivolse anche ad Oxfam e allo Sprar per chiedere se qualche giovane volesse sostenere un colloquio. Hassen vi ha partecipato: erano 20 persone e lui è stato scelto. "Penso che abbiano pensato a me perché hanno capito quanto avessi bisogno di un lavoro e quanto volessi essere utile e imparare un lavoro così bello. Adesso torno a sognare". 

Il sogno più grande è quello di portare via dall'inferno della Somalia i pochi affetti che ha. Perché nel frattempo la sua famiglia, per ritorsione, è stata decimata dai terroristi. Gli resta l'amore. E la speranza. 


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